sabato 16 ottobre 2010

giovedì 7 ottobre 2010

Marrone

Ottobre corre, mese disperato,
le voci della vita son farfugli,
il fango inquina tutti i rimasugli
di dorata opulenza del passato.

Aleggia ovunque dolce e marcio un fiato,
che mi entra dentro e trasmuta in intrugli
i pensieri miei, come sui cespugli
l'ultima frutta va incontro al suo fato.

Aspettando che il tempo le incarogni,
rimangono foglie secche e contorte
la cui essenza a poco a poco s'imbratta.

Tra i resti decadenti dei miei sogni
spira il vento mellifluo della morte,
e ogni cosa mi sembra putrefatta.

martedì 17 agosto 2010

Professore, ma che fa?

“Professore, ma che fa?”
“Lo so ben io, signorina. Non si preoccupi.”
“Esca subito, non può stare lì dentro.”
“Posso, invece. Posso e voglio!”
“Questo è assurdo! Non faccia il bambino, venga fuori di lì!”
“Come pensa di costringermi a farlo? Sentiamo. Non può entrare a prendermi.”
“E' lei che non può! Non si è mai vista una situazione del genere, è contraria a ogni regola del vivere civile!”
“Le sue argomentazioni sono inutili, oltre che noiose, signorina.”
“Lei è pazzo! Non può vivere rinchiuso lì dentro per sempre.”
“Posso, posso. Le comunico che in questo momento mi sono riallacciato, perciò nulla di ciò che serve al mio sostentamento biologico mi mancherà.”
“Non esiste solo il dato biologico. Non pensa alla sua carriera accademica? Al suo insegnamento?”
“Questo corso era il mio ultimo, sono ufficialmente in pensione. In effetti, progettavo di chiudermi qui dentro da molto tempo, ho pianificato la tempistica nei minimi dettagli.”
“Non pensa alla sua famiglia, ai suoi cari? Non contano forse ancora per lei, anche se è in pensione?”
“Mi meraviglio di lei, signorina! Come migliore studente del suo corso, pensavo avesse letto che sono vedovo, senza figli e conduco una vita solitaria di studio e meditazione. È scritto sui risvolti di tutti i miei saggi... e io che le ho dato trenta e lode all'esame, povero me! Se avessi saputo che la sua memoria era un tale colabrodo...”
“Professore! Ho studiato i suoi libri con attenzione e li rammento piuttosto bene, ma la biografia sui risvolti.. ammetterà che non si tratta di nozioni fondamentali per la conoscenza della materia, spero.”
“Vista la sua apparente incapacità di di comprendere l'attuale situazione, direi che le sue speranze sono mal riposte.”
“... Il gatto! Ma certo! Caro professore, come vede il mio colabrodo qualche particella di sostanza l'ha trattenuta. Ricordo che la sua biografia menzionava un gatto. Lei è vedovo, senza figli e conduce una vita solitaria eccetera... con la sola compagnia dell'adorato gatto Schultz! Di razza Maine Coon, silver tabby se non erro...”
“Notevole, signorina, davvero notevole. Schütz, non Schultz, l'unico essere vivente che mi abbia mai capito oltre alla mia compianta madre, giace sepolto sotto la magnolia del mio giardino, dopo che una pietosa iniezione del veterinario lo ha sollevato dall'incombenza di terminare vent'anni di gloriosa vita felina con le sofferenze di un tumore. Questo avveniva tre mesi fa.
Naturalmente, ho avvertito l'editore affinché aggiornasse la mia biografia di conseguenza, ma mi ha risposto che si sarebbe dovuta aspettare un'eventuale ristampa delle mie opere. Quindi, non la ritengo colpevole per la sua ignoranza del fatto.”
“Sempre magnanimo.”
“Suvvia, non sia sarcastica. Ascolti, le faccio la cortesia di fugare qualche suo eventuale altro dubbio, informandola che non ho parenti in vita, eccettuati alcuni cugini di terzo grado residenti in Venezuela, che non ho mai visto in vita mia.
Come può constatare, non ho legami familiari o sociali che mi impediscano di disporre per me stesso questa clausura perpetua.”
“Clausura perpetua? Non capisco perché voglia chiudersi per sempre al mondo. Ora che è in pensione, libero da legami familiari e da doveri professionali, dovrebbe anzi aprirsi di più! Faccia nuove conoscenze, si dedichi a qualche hobby interessante, viaggi all'estero! Cosa sono settant'anni, al giorno d'oggi? Lei può vivere una vera e propria età aurea, non ancora intaccata dal declino fisico e psichico.”
“Bel tentativo, ma il suo canto da sirena non non supererà la barriera dei miei tappi di cera logici. Non ho nessuna voglia di aprirmi ad esperienze nuove del mondo esterno, anzi desidero l'esatto contrario.
Come lei sa, o come dovrebbe sapere, quando nelle prime settimane di vita cominciamo ad esperire il bisogno non soddisfatto, avvertiamo per la prima volta degli stimoli esterni. Questi sono nient'altro che la sensazione di mancanza della cosa, la madre che ci nutre, che siamo costretti a sostituire con il ricordo di lei nella nostra memoria e con la sua proiezione nel futuro, in altre parole con una tensione, una perturbazione del piacere originario. Gli stimoli esterni, quindi, nascono da una carenza, e il mondo irrompe nel nostro sé come disagio e sofferenza. Il nostro spazio vitale si spezza irrimediabilmente e dolorosamente in due: di qua la nostra vita, di là il mondo esterno, che scopriremo complicato dalla presenza dei rapporti sociali. Il nostro sistema chiuso e regolato dal principio del piacere è aperto a forza e costretto ad apprendere ed esplorare, in una ricerca senza pace dell'equilibrio perduto.
Solo il sonno ci permette di richiuderci temporaneamente in noi stessi, per riparare i danni causati dalle perturbazioni esterne, prova ne è che quando cominciamo ad avvertire come troppo fastidiosi gli stimoli, quando la luce e i rumori si fanno insopportabili, quando non riusciamo più a sostenere una conversazione e si allentano le nostre capacità di comportarci secondo le norme culturali, è allora che diciamo di essere stanchi e ci abbandoniamo al sonno.”
“Quindi, se ho capito bene, lei vorrebbe dormire per il resto della sua vita?”
“Vorrei, ma non posso. Nel sonno, il mio organismo non potrebbe ricevere di che sostentarsi, eccetto l'aria. Il sonno stesso, perciò, sarebbe turbato e interrotto da quella maledetta tensione di cui parlavo prima. Per questo ho escogitato il sistema che ho messo in pratica.”
“Perché coinvolgere proprio me, però?”
“Perché lei è giovane, sana e di piacevole aspetto. Inoltre pensavo che la sua mente pronta e gli ottimi risultati conseguiti la rendessero in grado di comprendere la mia scelta e di non opporre una ottusa resistenza, ma vedo che sono stato troppo ottimista in questo.”
“Vede, professore, lei non ha calcolato che sta ledendo un mio diritto fondamentale.”
“Oh, e quale sarebbe mai?”
“Il diritto di disporre della mia persona fisica, professore. Perciò, le intimo, anzi le ordino, di uscire subito dal mio utero!”
“Signorina, davvero lei mi sta facendo pentire di averle firmato il libretto. Non ho forse consumato le mie corde vocali in innumerevoli lezioni, spiegando come la riduzione del corpo a cosa di cui possedere la proprietà non sia altro che un prodotto della sua svalutazione, dell'errata percezione del sé come residente nella coscienza superiore? E come la coscienza superiore stessa non sia che un prodotto della simbolizzazione delle cose, della loro trasformazione da vita a non vita? Non ricorda che il corpo biologico, in quanto dato originario, non può essere annullato, pertanto viene posto come realtà epifenomenica rispetto alla cultura, cosicché l'homo duplex riduce la normatività dell'ambito organico e si affida a un ambito extra-organico per ricercare la sua identità? Lei non possiede il suo corpo, signorina, lei è il suo corpo!
L'unico diritto che possiede dal punto di vista organico è quello di assimilare o annullare le cose che entrano in contatto con lei... e a quanto pare mi ha assimilato, come del resto avevo previsto.”
“Ma io non voglio questo!”
“E' il suo sé culturale che la fa parlare così, il suo sé biologico ha già disposto diversamente: siamo uniti da un cordone ombelicale e da una placenta nuovi di zecca. Sto immerso in un piacevole liquido amniotico caldo e mi appresto a godermi questa nuova vita fetale, chiacchiere moleste permettendo.
Ora, se me lo consente, mi chiuderei agli stimoli esterni e mi appresterei a godere dell'immediata soddisfazione dei miei bisogni. Assimilerò nutrimento prima ancora di sentirne la mancanza, mi libererò delle scorie con altrettanta velocità e sarò schermato dall'esterno nocivo grazie a lei, mia ospite e, d'ora in poi, mio universo.”



“Professore? Mi sente?”
“Cosa c'è ancora?”
“Credo di aver capito, lei è un grande egoista, anzi un gigantesco stronzo!”
“Signorina, egoismo e altruismo sono categorie culturali, non mi interessano più. Un animale percepisce una cosa e, guidato dall'istinto, la prende e la assimila, senza pensare ad altro, senza sospendere l'assimilazione e farne un simbolo che obbedisca ad altre logiche. Così fa un neonato: succhia dalla mammella fino a sazietà e defeca senza controllo. Non pensa agli altri, non ha nemmeno il concetto di “altra persona””.
“Lei non ha capito. Dicevo che è uno stronzo perché mi ha dato gli strumenti per comprendere la sua scelta, ma mi ha imposto di essere la sua nutrice e la sua barriera contro il mondo esterno, lasciandomi in balia di esso.”
“Signorina, lei sa benissimo qual è la soluzione. Al posto di lamentarsi, deve cercare un utero per lei stessa, e fare come me!”
“Se tutti facessero così, però..”
“...a catena, come tante matrioska...”
“...uteri dentro uteri, dentro uteri...”
“...naturalmente i maschi dovranno avere l'accortezza di de-nascere al primo stadio, in quanto privi dell'organo fondamentale, ma dal secondo stadio in poi ci saranno solo femmine, che non avranno problemi a continuare la catena ascendente.”
“Maschi e femmine sono all'incirca uguali per numero, non resterebbero uteri liberi per gli stadi successivi al primo!”
“Sciocchezze! Qualunque utero può accogliere bene una coppia di gemelli. Placente separate, chiaramente, o la chiusura non sarebbe totale.”
“Anche così, però, alla fine rimarrebbe un'unica super-madre, portatrice finale del genere umano. Una vittima sacrificale senza speranza di salvezza. Come potrebbe sopportare tutto ciò?”
“Signorina, sono tuttora convinto che lei possieda un'intelligenza brillante. A questo punto, la risposta viene da sé, ci pensi.”
“...”
“Allora?”
“Oh, mio Dio!”
“Esatto, signorina. All'ultimo essere umano non resterebbe che rientrare nell'utero di Dio!”

lunedì 12 luglio 2010

Taccuino Mondiale di Zio Biliberto

22 giugno, fase a gironi, Francia–Sudafrica 1-2: Beh, dai, per quanto schifo possiamo fare, saremo sempre andati meglio della Francia.
24 giugno, fase a gironi, Slovacchia-Italia 3-2: Promemoria: telefonare Zahi Hawass per ritrovamento mummie vestite di azzurro.
2 luglio, quarti di finale, Uruguay-Ghana 4-2 ai calci di rigore: El Ghana no gana.
2 luglio, quarti di finale, Olanda-Brasile 2-1: Arancia Meccanica si mangia una molle feijoada.
3 luglio, quarti di finale, Argentina-Germania 0-4: Diego, te gusta el wurstel?
3 luglio, quarti di finale, Paraguay-Spagna 0-1: Questi Mondiali sembravano la Coppa America, invece sono gli Europei.
6 luglio, semifinali, Uruguay-Olanda 2-3: Grosso Uruguayo a Capetown!
7 luglio, semifinali, Germania-Spagna 0-1: Se fossimo all'epoca di Carlo V, sarebbero già finiti i Mondiali.
10 luglio, finale per il terzo posto, Uruguay-Germania 2-3: Deutschland über hell(blau)!
11 luglio, finale, Olanda-Spagna 0-1: La corrida con le frisone.
12 luglio, ore 13.00 circa: Insalata di polpo con prezzemolo e aglio, wunderbar!!!

giovedì 17 giugno 2010

Il Ribaldone si riproduce!

Sono lieto di annunciare la nascita della prima metastasi del Ribaldone.
Cinque Bastoni è un blog nel quale apparirà piano piano l'omonimo romanzo, frutto imperfetto di una lunga incubazione da parte del sottoscritto.
Pubblicarlo qui sarebbe stato eccessivo per la già caotica struttura del blog, così ho escogitato (sarebbe meglio dire imitato da altri) l'espediente di un blog totalmente dedicato a quella eruttazione. Se tutto va bene, conto di tenere il Ribaldone di Pensieri come un bancone da lavoro in garage, trasferendo in nuovi blog tutti per loro le creature del bricolage che sembrano acquisire dimensioni preoccupanti. 

martedì 15 giugno 2010

Prossimamente...

Quindici saggi
seduti intorno al mondo
reggono il cielo.

Prima rivelazione di Patakkali

14 giugno 2010

Sera di febbre
altrui per il pallone.
Annaffio il prato.

giovedì 27 maggio 2010

L'emissario

Era sempre stato l’ultimo degli ultimi. Disprezzato, deriso, guardato con ribrezzo per la sua povertà e per la sordidezza del suo stesso esistere. Abituato a strisciare nel buio, rasente ai muri, temendo ogni spazio troppo aperto o illuminato. Si muoveva a capo chino, quasi senza guardare, come se credesse che, ignorando il mondo oltre pochi passi davanti a sé, anche questo avrebbe ignorato lui. Che sollievo se, in effetti, fosse stato così! Invece, quanti moti di disgusto, quante grida, quante esplosioni di odio aveva dovuto sopportare al suo solo passaggio! Veniva chiamato ladro, proprio lui che si sarebbe accontentato degli scarti che nessuno voleva. La gente lo scacciava brandendo bastoni con l’intento di uccidere, gli gettava pietre, gli tendeva trappole, i cani lo inseguivano ringhiando. Se non fosse stato per la sua estrema cautela in ogni piccola cosa, per la sua paranoia, per il suo fortissimo istinto a tenersi aggrappato a quella pur miserrima vita che gli era toccata in sorte, sarebbe morto dozzine di volte.
A volte si era chiesto se non fosse proprio quello il suo destino. Tutto il mondo lo rifiutava, tentava di rigettarlo. Avrebbe dovuto capirlo fin da quando era nato: il più piccolo e debole di tutta la sua famiglia, quasi incapace di succhiare il latte materno. Sopraffatto dai suoi fratelli, più robusti e vivaci. Schivato e rifiutato dalla madre stessa, per la quale era fonte di vergogna e simbolo di fallimento. Evidentemente, egli non era che un errore: la natura lavora su grandi quantità, è inevitabile che qualcosa sfugga al suo occhio, anche se attento. Ma le fabbricazioni difettose, si sa, non funzionano. Invece, lui era sopravvissuto contro ogni verosimile previsione degli eventi, precipitando sul fondo di una nicchia più che ricavandosela con le sue forze o i suoi meriti. Senza mai distanziarsi a più di un passo dalla fine, si era nutrito di scarti di infimo grado, repellenti e inservibili per sostentare per qualunque altro essere vivente. Per lui, però, la cui esistenza era così simile al niente, anche queste infinitesimali briciole bastavano. Così, continuava a tenere una debole presa sulla vita.
Debole, sì, ma quale sfida rappresentava questa presa nei confronti della giustizia crudele della natura! Quale onta per il mondo! L’errore voleva perseverare in se stesso, divenendo diabolico! Evidentemente, si ripeteva, è per questo che tutti mi odiano: sono un errore che erra due volte, pretendendo di non essere corretto con la cancellazione.
La natura era come un immenso organismo, che reagiva istintivamente di fronte a un corpo estraneo. Più volte gli era capitato di ammalarsi. Nutrendosi di rifiuti e acqua sporca, dormendo nelle fogne, era una cosa abbastanza normale. Aveva potuto sperimentare, in quei momenti, come il suo corpo reagisse per fronteggiare la minaccia. La temperatura saliva, come per una concentrazione maggiore di sforzo, le viscere si gonfiavano e si contraevano, cercando di espellere la sostanza maligna da una parte o dall’altra. Aveva notato soprattutto come l’intera operazione fosse disagevole e dolorosa. Allo stesso modo, quindi, le persone provavano disagio e agitazione nei suoi confronti, non dandosi pace fino a quando non sarebbero riusciti a distruggerlo, perché la sua ostinata tendenza a rimanere vivo era un insulto al naturale corso degli eventi e tutti gli esseri viventi di questa terra stavano forse cercando, istintivamente, di ristabilire la giustizia cosmica.
Di tutto questo, però, non si era reso bene conto nel momento in cui accadeva. Ne aveva avuto una sorta di coscienza embrionale, che gli era stata utile per analizzare meglio la situazione in seguito, quando la sua mente così tarda e ottusa si era finalmente rischiarata, ma allora, per lungo tempo era sopravvissuto senza una vera e propria intelligenza a guidarlo.
Ora, però, tutto quanto era cambiato. Da preda era diventato cacciatore, da oggetto di disprezzo era diventato fonte di terrore. Era sempre odiato, sempre considerato un abominio, qualcosa di estremamente ripugnante, da non vedere, di cui non parlare, di cui rimuovere persino il ricordo, ma erano i rapporti di forza a non essere più gli stessi. L’errore aveva vinto, aveva sovvertito l’ordine naturale, diventando più normale della norma.

La svolta non era avvenuta in un unico, nitido punto, ma attraverso una graduale trasformazione. Forse la prima cosa era stata la voce. Era iniziata come un brusio di sottofondo, molto sommesso, dal significato indiscernibile, solamente un rumore che riempiva uno strato vuoto in fondo alla sua coscienza torpida. In un certo senso, non poteva giurare che non ci fosse stata da sempre e poi, per qualche motivo, si fosse accorto della sua presenza. Non sapeva dire se fosse stata l’intensità di quel mormorio ad aumentare o la sua attenzione a focalizzarsi su di essa e a imparare a prestarvi ascolto. Era stato un periodo di risvegli e di scoperte, tutto poteva essere. Gli capitava di guardare ogni cosa come se fosse la prima volta, di avere delle illuminazioni, delle visioni nitide su quanto lo circondava e che prima aveva visto senza vedere per centinaia di volte, con tutta probabilità. Cominciava anche a pensare meglio, a dissipare quella nebulosa incoscienza che lo affiggeva da sempre. Col tempo si era messo in testa che doveva entrarci in qualche maniera il laboratorio dell’alchimista. Ovviamente, al tempo della sua visita, non aveva la più pallida idea che fosse un laboratorio. Non sapeva nemmeno cosa fosse un alchimista. Questo l’avrebbe dedotto dopo, a cose fatte. Allora cercava solo qualcosa da mangiare, o forse un posto dove fuggire dai cani, o forse entrambi contemporaneamente. Come sempre.
La stanza era umida e fredda. C’era una finestrella minuscola, dal vetro incrostato di sporcizia, posta in alto sulla parete. Il laboratorio era in una cantina, perciò la finestrella doveva essere poco al di sopra dell’acciottolato della strada. La luce che vi entrava era quindi molto flebile, adombrata spesso dai passanti e dai carri che si frapponevano dall’altra parte. Questo, assieme al fatto che la cantina era ingombra di banchi, scaffali e casse in ordine sparso, faceva sì che le zone di oscurità la facessero da padrone. Era proprio per questo motivo che si era avventurato all’interno. L’ombra gli era amica, la cercava sempre per rimanere nascosto alla vista degli altri. Così, vincendo la sua enorme paura per l’ignoto, era corso velocemente sotto un pesante bancone di legno ingombro di bizzarri strumenti. Mentre rimaneva acquattato sul pavimento di pietra gelida e umida, cercando di placare il respiro affannato, che ad ogni inspirazione gli portava alle narici gli odori strani e offensivi di quella stanza, e attendendo che il suo cuore rallentasse la frenesia del battito, non poteva certo immaginare che la sua esistenza era ad un passo dalla svolta.
Ricordava di essere rimasto a lungo sotto quel tavolo, finché si era reso sicuro che non ci fosse alcun altro essere vivente a parte lui. I suoi occhi scrutavano tra le ombre notando sagome bizzarre: libri polverosi e in disfacimento, impilati in equilibrio precario, simili a minacciosi serpenti di carta; strani contenitori traslucidi, di forme mai viste, tutti un susseguirsi di curve, rigonfiamenti, sfere, colli ritorti, lunghi tubi; vasi che spandevano gli odori nauseabondi oppure aspri del loro contenuto ignoto; strumenti di ogni tipo, metallici per lo più; e poi ossa, ossa e ancora ossa di piccoli animali serviti per chissà quali orridi scopi. Se fosse stato in grado di pensare lucidamente come adesso, avrebbe capito che non bisognava aspettarsi nulla di buono da quell’assortimento di oggetti, ma allora solo la paura e la fame lo muovevano, e, temporaneamente sopita la prima, la seconda diventava più forte di attimo in attimo.
Si fermò un attimo. Che idiozia! Se non avesse seguito l’impulso della fame, non sarebbe mai diventato quello che era. Non avrebbe nemmeno potuto formulare il pensiero sciocco di poco prima, né ovviamente accorgersi subito dopo della sua sciocchezza. Qualcosa di buono era successo! Qualcosa di ottimo, sebbene pauroso e doloroso.
Aveva raggiunto con molta circospezione una serie di vasi di vetro sbrecciati. Annusava quasi con disperazione, cercando di distinguere in quella cacofonia di odori sgradevoli il minimo segno percettibile di qualcosa di commestibile.
All’improvviso, c’era stato un rumore: un debole schianto sordo seguito da una coda di tonfi ravvicinati, fradici e confusi. Probabilmente, uno scaffale marcito e vetusto aveva ceduto sotto il peso dei volumi accatastati su di esso e questi erano caduti, non di colpo ma scompaginandosi e sgranandosi uno dopo l’altro, generando un suono repellente.
Quel rumore gli aveva quasi fatto spiccare un salto di paura. In un gesto inconsulto, dettato dai nervi a fior di pelle, aveva urtato i vasi con cui stava trafficando, rovesciandoli e infrangendoli. Le sostanze contenute al loro interno si erano mescolate violentemente, alzando una zaffata di polvere pestilenziale che lo aveva travolto in pieno; prima che avesse potuto schermirsi, ne aveva già inalata una certa quantità. La gola gli si era serrata in una morsa dolorosa, che non gli permetteva né di tossire né di respirare, mentre un violento capogiro lo aveva costretto ad accasciarsi scompostamente, urtando di nuovo i vasi e sollevando altra polvere. Nel suo campo visivo, ogni cosa si deformava e si muoveva, assumendo proporzioni completamente sbagliate e impossibili. Per quanto si sforzasse, con grande agonia, di respirare, non ci riusciva. Era stato colto allora dalla consapevolezza di stare per morire.
Invece, in quel momento aveva udito la voce. Era come un mugolio lontano che gradualmente, senza che nessuno vi prestasse attenzione, si era avvicinato fino a non poter più essere ignorato. All’interno di questo urlo senza un inizio e senza una fine, ottuso e mugghiante, c’erano delle variazioni continue, delle stratificazioni di suoni diversi, contemporanei e sfalsati, come se fossero parole, impronunciabili, atone, che voce mortale non avrebbe mai potuto articolare per l’impossibilità fisica di riprodurle. Erano suoni di un altro mondo, vibranti di una profondità insondabile dagli oscuri e inconfessabili segreti. Era come una testimonianza inaspettata emersa dagli abissi più profondi di una realtà da incubo, di cui nessuno aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza. D’improvviso, la letale mescolanza di sostanze alchemiche che aveva inalato aveva cessato di farlo soffocare. Non sentiva più alcuna sofferenza, solo le ineffabili permutazioni della voce della sua guida, del suo nuovo padrone.
La voce non l’avrebbe mai più lasciato solo.
Erano frasi in una lingua inesistente, eppure lui gradualmente imparò a comprenderle. Gli parlavano di lui stesso, gli svelavano la sua miseria, gli aprivano gli occhi sulla realtà del mondo. Grazie alla voce, aveva capito che la sua coscienza aveva dormito un lungo sonno, costellato di incubi, ma ora essa era giunta per risvegliarla. Con l’aiuto della voce, avrebbe avuto tutta la fortuna che gli era sempre mancata, perché la voce parlava di una mutazione totale, radicale, incontrovertibile della realtà stessa. E lui sarebbe stato il tramite, il cuore, la sede dell’impulso generatore di questa trasformazione cosmica.

Da quel giorno, un cambiamento si era susseguito all’altro, in uno stordente crescendo di novità, di mutazioni, di vittoriose conquiste nei domini della consapevolezza, dell’autocoscienza e della sapienza. Se prima era stato l’ultimo, ora stava scalando tutte le posizioni, diretto da un destino superiore verso il vertice della piramide esistenziale.
C’erano sempre stati altri, che come lui vivevano di espedienti nelle fogne. Anche questi erano degli ultimi. Non così tanto ultimi, come lo era stato lui, ma pur sempre dei reietti. Avrebbe potuto rivalersi subito su di loro, che lo avevano umiliato tante volte in quell’assurda gara di cattiveria tra pezzenti per accaparrarsi i rifiuti, ma non lo aveva fatto. Erano divenuti i suoi primi seguaci, riconoscendo in lui il simbolo della rivoluzione dalle spietate leggi della natura, il capo seguendo il quale avrebbero dato la scalata al mondo rigoglioso e pulito che tanto odiavano e contemporaneamente bramavano. Erano diventati la sua legione puzzolente, claudicante, malata, debole, ma incrollabile, inarrestabile e fedele fino alla morte. Per questo, pur potendolo fare, non aveva abbandonato le fogne. Erano la capitale del suo regno. Non aveva scelto di viverci, ci era stato cacciato a forza dai cani e dai bastoni. Ora avrebbe trasformato in una latrina fermentante di morbi tutto il mondo, per ritorsione. Che morissero nel modo in cui lui invece era sopravvissuto!
Anche ora, mentre pensava a tutto questo, strisciava lungo i cunicoli grondanti putridume che chiamava casa. Sciami di ratti deformi e insetti che non avevano mai conosciuto la luce del sole lo accompagnavano, muovendosi ad ondate, ad ogni suo passo. Procedeva incurante dei vapori insani, carichi di germi di ogni malattia. Su di lui non avevano più alcun effetto. Si muoveva, grande e potente, al di sotto di coloro che stavano ormai da tempo tremando nel terrore della sua indefinita presenza, senza conoscere nulla del loro dominatore, ignorando ancora la direzione che egli avrebbe impresso all’evoluzione e che avrebbe cancellato per sempre la loro ridicola, ordinata, linda civiltà. Continuavano a riversare le loro deiezioni nella fogna che essi stessi avevano costruito, perché non sopportavano la vista della sporcizia che producevano, e non sapevano che quel luogo di peccati rimossi e di scarti abbandonati avrebbe vomitato fuori la loro nemesi.
Alcuni dei più scaltri avevano capito, tuttavia, e avevano preso l’unica decisione sensata. Una volta lo disprezzavano, ed ora lo temevano, si prostravano di fronte a lui, strisciavano nella melma per venire ad abbeverarsi alle sue parole, eseguivano i suoi ordini tremando al pensiero della punizione. Si sarebbero lasciati schiacciare senza opporre resistenza sul fondale lurido di escrementi del collettore, frantumare le ossa e ridurre in poltiglia senza opporre un lamento.
Comprimendo il suo corpo rigonfio per oltrepassare lo stretto passaggio, entrò nella sala con uno sciaguattare osceno. Erano tutti lì, in febbrile attesa della sua venuta. Avvolti da mantelli lerci, con i volti deformi e sfigurati che esprimevano terrore e rispetto, con i corpi gobbi e tremanti. Li aveva convinti a barattare la loro salute e la loro umanità in cambio del potere e della promessa di un posto al suo fianco nel nuovo mondo che stava per nascere. Lo odiavano a morte, ma non potevano farci nulla: erano totalmente suoi.
Si concesse un istante per bearsi del loro orrore malcelato, mentre li fissava uno ad uno. Poteva leggerli come libri spalancati. I visi degli uomini, deturpati dalle malattie fino ad avere sembianze cadaveriche, senza più naso e labbra, fremevano di un’emozione a stento repressa. In quel momento stavano senza dubbio interrogandosi senza pace, come sempre. Perché, si stavano chiedendo, perché non loro? Perché la rivelazione non era stata fatta a loro, che si credevano superiori, che mai avrebbero pensato che uno scarto tra gli scarti, un essere così infimo, li avrebbe sopravanzati?
Ironia della sorte! Poveri sciocchi, presto sarebbero stati solo terreno di coltura per i vermi, e la loro esulcerante umiliazione, dettata dall’atavica arroganza della loro specie, sarebbe morta con loro. I loro occhi febbricitanti, non facevano che rimandare l’immagine irridente di colui che aveva rovesciato ogni rapporto tra le specie cosiddette dominanti.
Lì, di fronte a loro, c’era la risposta, ma continuavano a non accettarla: in quel corpo enorme, rigonfio, pulsante e peloso; in quel muso allungato, che terminava in un naso umido e fremente, contornato da lunghe vibrisse; in quegli occhietti neri che si erano moltiplicati dal numero iniziale di due, aprendosi a grappoli e a file lungo tutto il cranio e il dorso; in quelle zampe artigliate, che una volta frugavano, come milioni di altre, nei rifiuti in cerca di cibo ed ora si muovevano con sapienza e intelligenza manipolando reagenti e composti biochimici che mai la supposta razza superiore era stata in grado di scoprire.
L’enorme creatura che un tempo era stata un ratto, fletté le sue nuove otto zampe di ragno, simili a tronchi alieni coperti di rostri, e unì la sua voce inumana a quella che risuonava nella sua coscienza, fin dal momento che questa era sbocciata come un fiore immondo.

Aghsh…akfaghjilesh…ggharhaddd-aghsh…lkhjias-aghsh…Ba' al zebub! Sì! Ba' al zebub, Signore delle Mosche, Grande Parassita, insondabile fautore della suprema evoluzione! Ieri ultimi, oggi primi; le parti si rovesciano, tutto cambia! Si dice che tutto sia scritto, ma Ba' al zebub mi ha spiegato come entrare nel testo cosmico e alterare le frasi, trasformando il racconto del creato in un altro totalmente diverso! Perché Ba' al zebub è Colui che dominerà il Nuovo Mondo e io, un ratto di fogna, sono il suo Emissario!”

Le desolate lande che mirai

Le desolate lande che mirai
dalla cima guardando d'un'altura
paura evitar non mi fece mai
e cento volte scelsi l'avventura.

Di morte colme e di dolor peggiori
son queste terre d'ogni gioia vuote,
ma arcane conoscenze allori ed ori,
se in alto volgeranno allor le ruote

del Fato per coloro che là vanno,
daranno come messi il campo dona
quando si dice: buono è stato l'anno.

Se pure un solo errore non perdona
la Morte, color che a sfidarla andranno
avran col rischio più grande corona.

mercoledì 26 maggio 2010

Novità sul Ribaldone

Ho deciso di organizzare un po' meglio questo blog creando delle pagine tematiche. Mettendomi nei panni di un ipotetico (e inesistente) lettore che giungesse al mio blog senza avere contatti diretti e frequenti con me, ho pensato che potrebbe trovare più comodo consultare direttamente un indice della categoria di eruttazione mentale che gli interessa, anziché ricercare per etichetta.
Finora esistono due pagine:
  • pagina per gli ahi! ku
  • pagina per il manifesto del Maximal Shock
A breve, dovrebbero comparire anche:
  • una pagina per gli animalimerick
  • una pagina per le altre poesie
  • forse, una pagina per i racconti
Colgo l'occasione anche per anticipare alcuni fumosi progetti, nella speranza che il detto scripta manent faccia il suo dovere e mi sproni a realizzarli, dato che ormai ne ho scritto: sto ruminando nientemeno che una parodia shakespeariana e un romanzo fantasy.
Ecco, l'ho scritto. Ho fatto malissimo.

Ferragosto

Scoppi di fiori,
profane invocazioni
al cielo estivo.

Un altro compleanno

Chiacchiere in festa
d'estate una serata,
ventottesima.

Insonnia

Quando la notte
stende un velo di seta,
sono poeta?

Dedica al Maestro

Su un ramo secco
c'è un corvo stecchito:
mente di Guido

mercoledì 5 maggio 2010

Ricordo di Lucca

Mano d'artista
percorre il bianco vuoto:
segni di sogni.

I sodomitili

Roma, si sa, non fu fatta in un giorno,
ma in tanto Sodoma tolser di torno.
Sul fondo del Mar Morto
sol cercavan conforto,
poi la vicenda divenne un po' porno.

venerdì 30 aprile 2010

Il cinghiozzo

Sto in mezzo agli scogli, sono il cinghiozzo.
Boccheggio e grugnisco, sono un po' rozzo.
Di tartufi goloso,
li pregusto bavoso,
ma a causa delle branchie mi ci strozzo.

mercoledì 21 aprile 2010

venerdì 16 aprile 2010

Manifesto del Maximal Shock

  1. Noi vogliamo cantare il pane e salame, l'ineluttabile piacere della defecazione, la tondeggiante sfida alla forza di gravità della tetta.
  2. Noi non vogliamo dichiararci poeti, scrittori, artisti, opinionisti, ma soltanto persone.
  3. Pertanto, in segno di umiltà e di vicinanza con le altre funzioni fisiologiche del nostro organismo, le nostre produzioni saranno chiamate eruttazioni mentali, o più semplicemente eruttazioni.
  4. Noi vogliamo chiamare le cose con il loro nome, liberandoci dalle insulse pastoie del politically correct. Prendiamo come modello dell'ampiezza del nostro vocabolario Dante Alighieri, che nella stessa opera fece uso del vocabolo “Dio” e del vocabolo “merda”. Questo modello sottosta in ogni caso al punto seguente del manifesto.
  5. Noi vogliamo essere liberi di saccheggiare, parodiare, sbeffeggiare, amare, rispettare qualsiasi fonte di ispirazione. Pretendiamo di poter ridere di chiunque e di qualunque cosa, fare delle differenze e trattare in modo iniquo chi ci pare e piace, seguendo il nostro estro.
  6. Noi vogliamo essere culturalmente incoscienti e irresponsabili. Vogliamo agire come elefanti ubriachi in un negozio di cristalli e nello stesso tempo come farfalle ingenue in un'aula di entomologia.
  7. Noi vogliamo essere il piede di porco che scardina lo sfintere anale del minimal chic. Se la bellezza è nell'occhio di chi guarda, allora la volgarità sia nell'orecchio di chi ascolta.
  8. Noi vogliamo rimanere liberi, indipendenti, immuni alle mode e alle convenzioni ovine dello zeitgeist. Non apparteniamo a un gruppo o a una tribù, tanto meno a quella dei sedicenti “trasgressivi”, che adottando gesti, parole e consuetudini comuni tra loro, contraddicono e gettano nel ridicolo le loro stesse pretese.
  9. Gli aderenti al MAXIMAL SHOCK possono trattare questo manifesto al pari di tutte le altre fonti di ispirazione, come da quinto punto.
  10. Rutto libero, scoreggia dichiarata.

martedì 30 marzo 2010

giovedì 25 marzo 2010

Un personaggio in cerca di storia

C’era un uomo di nome Jim Potato
che sempre in soffitta stava serrato
e, senza alcun consesso,
lui mutava se stesso:
timido trasformista quel Potato!

lunedì 15 marzo 2010

17/10/00 in treno

Prima e dopo il nulla,
un lampo
e soltanto una flebile traccia che si sfalda
tra le dita terrose e insensibili.
Un breve
grido
nell'immobile mosso che guarda
alberi scorrere scorrere scorrere.

E' stato deciso

E' stato deciso che la strada debba essere in salita.
Non si sa quando, dove, perché e da chi.
Solo questo:
in salita e nella
nebbia.

mercoledì 10 marzo 2010

martedì 9 marzo 2010

Stati di coscienza

Ogni mattina, all'aurora, il signor Guido Ferri si sveglia stanco perché si è appena addormentato, ma non può fare a meno di alzarsi, spinto da un senso di oppressione che lo stringe al petto. La stanza appare invariabilmente squallida per la luce spettrale e caliginosa che filtra dalla tapparella mal calata. Il signor Ferri non sa spiegarsi perché, ma ogni mattina sente l’irrefrenabile istinto di abbandonare al più presto la casa, come se ne andasse della sua sopravvivenza. L’unica cosa che gli è dato di sapere, sotto forma di dogma, è che non deve assolutamente pensare a Quella Cosa, o Essa si materializzerà dal nulla, portata ad esistere dal suo stesso pensiero.
Tuttavia, nel momento stesso in cui il signor Ferri si dice: “Devo resistere, non devo pensare a Quella Cosa...”, ecco che l’ha pensata e si mette in moto il fatale meccanismo. La Cosa fa intuire la sua presenza insinuando nel signor Ferri la paura, che rende finalmente chiari il senso di oppressione e la volontà di fuga che provava da prima.
Egli sa che esiste sempre solo un’unica via di scampo: ogni mattina, a questo punto, esce sul terrazzino della camera da letto, sale in piedi sulla ringhiera metallica e si getta nel vuoto.
Dopo una breve fase di caduta, il signor Ferri riprende quota e cerca freneticamente di volare lontano. Il signor Ferri non ha ali, egli vola come nuotando nell’aria. A volte il suo corpo è tremendamente pesante e si sposta molto lentamente. Il signor Ferri sa che in questi casi è quasi condannato.
Il segreto per sfuggire alla Cosa è la velocità: occorre volare dove Essa non può vedere la sua preda prima che sia comparsa sul terrazzino. La Cosa, infatti, proviene dall’interno della casa e incombe alle spalle del signor Ferri. Di fronte al terrazzino c’è un grigio palazzo simile a quello in cui vive il signor Ferri; al di là di esso, a destra del terrazzo e dall’altra parte del suo stesso palazzo si estende la città. A sinistra del terrazzo, invece, il paesaggio offre colline tondeggianti ricoperte di erba e qualche albero: questa via non è praticabile a meno che il vantaggio sulla Cosa non sia grande, perché non vi sono ripari dove sfuggire al Suo terribile sguardo. Quasi sempre, perciò, il signor Ferri si dirige a frenetiche bracciate verso i palazzi, cercando di nascondersi sul lato opposto di uno di essi prima che la Cosa emerga dal suo appartamento. Non sempre è abbastanza rapido da riuscirci al primo tentativo e allora, in preda al panico e senza mai voltarsi indietro, deve gettarsi in un disperato slalom volante tra diversi edifici della città ancora deserta, sentendo la Cosa sempre più vicina dietro di sé, finché non riesce, con infinite curve e giravolte, a farle perdere il contatto visivo.
Anche con molti metri quadrati di cemento tra il suo corpo ansimante e il letale sguardo della Cosa, egli può sentirla scandagliare l'orizzonte cercandolo e si fa piccino, trattenendo il respiro e restando immobile, con le stille di sudore che piovono giù dal suo corpo senza peso.
Solo dopo interminabili momenti di terrore, il signor Ferri sente che l'oppressione sulla sua mente si allevia, segno che la Cosa ha rinunciato ancora una volta alla sua caccia. Nonostante questo, rimane immobile ancora a lungo prima di osare ritornare a casa, questa volta camminando, dove si getta spossato sul letto e cerca vanamente di riposarsi prima che la sveglia suoni e la parte ordinaria della sua giornata cominci.
Il signor Ferri non ha mai parlato a nessuno di tutto questo. La Cosa è il suo terribile segreto, l'appuntamento inevitabile di ogni alba della sua vita. Egli è convinto che la Cosa non esista se non in quel momento e per lui solo, ciononostante è così reale e vivida che all'approssimarsi della sera il signor Ferri si sente sempre più inquieto, e sebbene si corichi di buon'ora, non riesce a chiudere occhio per buona parte della notte.

Freneticamente alzò la tapparella, spalancò la portafinestra. Presto, presto! La sentiva dietro di sé. Balzò sulla ringhiera e spiccò il volo.
Quando lo tirarono su dal marciapiede sei piani più sotto per portarlo all’obitorio, il suo volto era ridotto a una maschera piatta e informe. Un infermiere si sentì male.

sabato 6 marzo 2010

Amico mi sei, fra tutti il più grande.

Amico mi sei, fra tutti il più grande.
Foglio in cima di tutto quanto il plico.
Dello spettro dei ricordi le bande
tutte attraversi: è il vero che dico.

Un porto sicuro in rocciose lande
tu sei, dov’io, di ciò sempre mendico,
rilassato e calmo ammaino le rande
senza bisogno d’usare l’antico

espediente di celar le emozioni,
difesa da insicurezza e paura,
né di seguire stolte convenzioni.

Infatti l’amicizia vera e pura
non ha bisogno di dimostrazioni
che il falso amico ad esiger perdura.

Magic moment

Fare la cacca
quando proprio ti scappa,
grande sollievo.

Ahi! ku

Sebbene non sia particolarmente nippofilo, di tanto in tanto mi diverto a scrivere haiku, o meglio dei versi che fino a poco tempo fa credevo fossero haiku.
Recentemente ho letto una definizione di questa forma poetica nel blog del mio caro amico Guido, uno che del Giappone ha fatto un oggetto di culto, e mi sono reso conto che i miei sono solo "semplici versi senza fisionomia". Dell'haiku prendono solo la divisione in diciassette "suoni", sillabe, e la partizione dei versi in un quinario, un settenario e un altro quinario. L'haiku originale, inoltre, è una forma pittografica quanto poetica: deve essere tanto gradevole e artistico graficamente quanto all'udito.
Con barbarica ignoranza di occidentale, mi sono appropriato di questo prodotto della cultura giapponese e l'ho stravolto a mio piacimento, tenendo solo quello che mi ha fatto comodo e buttando via il resto. Sono abbastanza contento del mio misfatto, però non posso continuare a chiamare haiku i miei terzetti di versi, perché in definitiva non lo sono mai stati.
Siccome spesso hanno un contenuto demenziale e umoristico (almeno come velleità, i risultati sono un altro paio di maniche), ho deciso di chiamarli Ahi! ku, e con questa etichetta appariranno sul Ribaldone.

Quotidianità

Pacco di pasta,
un etto di salame.
Spesa da fare.