giovedì 27 maggio 2010

L'emissario

Era sempre stato l’ultimo degli ultimi. Disprezzato, deriso, guardato con ribrezzo per la sua povertà e per la sordidezza del suo stesso esistere. Abituato a strisciare nel buio, rasente ai muri, temendo ogni spazio troppo aperto o illuminato. Si muoveva a capo chino, quasi senza guardare, come se credesse che, ignorando il mondo oltre pochi passi davanti a sé, anche questo avrebbe ignorato lui. Che sollievo se, in effetti, fosse stato così! Invece, quanti moti di disgusto, quante grida, quante esplosioni di odio aveva dovuto sopportare al suo solo passaggio! Veniva chiamato ladro, proprio lui che si sarebbe accontentato degli scarti che nessuno voleva. La gente lo scacciava brandendo bastoni con l’intento di uccidere, gli gettava pietre, gli tendeva trappole, i cani lo inseguivano ringhiando. Se non fosse stato per la sua estrema cautela in ogni piccola cosa, per la sua paranoia, per il suo fortissimo istinto a tenersi aggrappato a quella pur miserrima vita che gli era toccata in sorte, sarebbe morto dozzine di volte.
A volte si era chiesto se non fosse proprio quello il suo destino. Tutto il mondo lo rifiutava, tentava di rigettarlo. Avrebbe dovuto capirlo fin da quando era nato: il più piccolo e debole di tutta la sua famiglia, quasi incapace di succhiare il latte materno. Sopraffatto dai suoi fratelli, più robusti e vivaci. Schivato e rifiutato dalla madre stessa, per la quale era fonte di vergogna e simbolo di fallimento. Evidentemente, egli non era che un errore: la natura lavora su grandi quantità, è inevitabile che qualcosa sfugga al suo occhio, anche se attento. Ma le fabbricazioni difettose, si sa, non funzionano. Invece, lui era sopravvissuto contro ogni verosimile previsione degli eventi, precipitando sul fondo di una nicchia più che ricavandosela con le sue forze o i suoi meriti. Senza mai distanziarsi a più di un passo dalla fine, si era nutrito di scarti di infimo grado, repellenti e inservibili per sostentare per qualunque altro essere vivente. Per lui, però, la cui esistenza era così simile al niente, anche queste infinitesimali briciole bastavano. Così, continuava a tenere una debole presa sulla vita.
Debole, sì, ma quale sfida rappresentava questa presa nei confronti della giustizia crudele della natura! Quale onta per il mondo! L’errore voleva perseverare in se stesso, divenendo diabolico! Evidentemente, si ripeteva, è per questo che tutti mi odiano: sono un errore che erra due volte, pretendendo di non essere corretto con la cancellazione.
La natura era come un immenso organismo, che reagiva istintivamente di fronte a un corpo estraneo. Più volte gli era capitato di ammalarsi. Nutrendosi di rifiuti e acqua sporca, dormendo nelle fogne, era una cosa abbastanza normale. Aveva potuto sperimentare, in quei momenti, come il suo corpo reagisse per fronteggiare la minaccia. La temperatura saliva, come per una concentrazione maggiore di sforzo, le viscere si gonfiavano e si contraevano, cercando di espellere la sostanza maligna da una parte o dall’altra. Aveva notato soprattutto come l’intera operazione fosse disagevole e dolorosa. Allo stesso modo, quindi, le persone provavano disagio e agitazione nei suoi confronti, non dandosi pace fino a quando non sarebbero riusciti a distruggerlo, perché la sua ostinata tendenza a rimanere vivo era un insulto al naturale corso degli eventi e tutti gli esseri viventi di questa terra stavano forse cercando, istintivamente, di ristabilire la giustizia cosmica.
Di tutto questo, però, non si era reso bene conto nel momento in cui accadeva. Ne aveva avuto una sorta di coscienza embrionale, che gli era stata utile per analizzare meglio la situazione in seguito, quando la sua mente così tarda e ottusa si era finalmente rischiarata, ma allora, per lungo tempo era sopravvissuto senza una vera e propria intelligenza a guidarlo.
Ora, però, tutto quanto era cambiato. Da preda era diventato cacciatore, da oggetto di disprezzo era diventato fonte di terrore. Era sempre odiato, sempre considerato un abominio, qualcosa di estremamente ripugnante, da non vedere, di cui non parlare, di cui rimuovere persino il ricordo, ma erano i rapporti di forza a non essere più gli stessi. L’errore aveva vinto, aveva sovvertito l’ordine naturale, diventando più normale della norma.

La svolta non era avvenuta in un unico, nitido punto, ma attraverso una graduale trasformazione. Forse la prima cosa era stata la voce. Era iniziata come un brusio di sottofondo, molto sommesso, dal significato indiscernibile, solamente un rumore che riempiva uno strato vuoto in fondo alla sua coscienza torpida. In un certo senso, non poteva giurare che non ci fosse stata da sempre e poi, per qualche motivo, si fosse accorto della sua presenza. Non sapeva dire se fosse stata l’intensità di quel mormorio ad aumentare o la sua attenzione a focalizzarsi su di essa e a imparare a prestarvi ascolto. Era stato un periodo di risvegli e di scoperte, tutto poteva essere. Gli capitava di guardare ogni cosa come se fosse la prima volta, di avere delle illuminazioni, delle visioni nitide su quanto lo circondava e che prima aveva visto senza vedere per centinaia di volte, con tutta probabilità. Cominciava anche a pensare meglio, a dissipare quella nebulosa incoscienza che lo affiggeva da sempre. Col tempo si era messo in testa che doveva entrarci in qualche maniera il laboratorio dell’alchimista. Ovviamente, al tempo della sua visita, non aveva la più pallida idea che fosse un laboratorio. Non sapeva nemmeno cosa fosse un alchimista. Questo l’avrebbe dedotto dopo, a cose fatte. Allora cercava solo qualcosa da mangiare, o forse un posto dove fuggire dai cani, o forse entrambi contemporaneamente. Come sempre.
La stanza era umida e fredda. C’era una finestrella minuscola, dal vetro incrostato di sporcizia, posta in alto sulla parete. Il laboratorio era in una cantina, perciò la finestrella doveva essere poco al di sopra dell’acciottolato della strada. La luce che vi entrava era quindi molto flebile, adombrata spesso dai passanti e dai carri che si frapponevano dall’altra parte. Questo, assieme al fatto che la cantina era ingombra di banchi, scaffali e casse in ordine sparso, faceva sì che le zone di oscurità la facessero da padrone. Era proprio per questo motivo che si era avventurato all’interno. L’ombra gli era amica, la cercava sempre per rimanere nascosto alla vista degli altri. Così, vincendo la sua enorme paura per l’ignoto, era corso velocemente sotto un pesante bancone di legno ingombro di bizzarri strumenti. Mentre rimaneva acquattato sul pavimento di pietra gelida e umida, cercando di placare il respiro affannato, che ad ogni inspirazione gli portava alle narici gli odori strani e offensivi di quella stanza, e attendendo che il suo cuore rallentasse la frenesia del battito, non poteva certo immaginare che la sua esistenza era ad un passo dalla svolta.
Ricordava di essere rimasto a lungo sotto quel tavolo, finché si era reso sicuro che non ci fosse alcun altro essere vivente a parte lui. I suoi occhi scrutavano tra le ombre notando sagome bizzarre: libri polverosi e in disfacimento, impilati in equilibrio precario, simili a minacciosi serpenti di carta; strani contenitori traslucidi, di forme mai viste, tutti un susseguirsi di curve, rigonfiamenti, sfere, colli ritorti, lunghi tubi; vasi che spandevano gli odori nauseabondi oppure aspri del loro contenuto ignoto; strumenti di ogni tipo, metallici per lo più; e poi ossa, ossa e ancora ossa di piccoli animali serviti per chissà quali orridi scopi. Se fosse stato in grado di pensare lucidamente come adesso, avrebbe capito che non bisognava aspettarsi nulla di buono da quell’assortimento di oggetti, ma allora solo la paura e la fame lo muovevano, e, temporaneamente sopita la prima, la seconda diventava più forte di attimo in attimo.
Si fermò un attimo. Che idiozia! Se non avesse seguito l’impulso della fame, non sarebbe mai diventato quello che era. Non avrebbe nemmeno potuto formulare il pensiero sciocco di poco prima, né ovviamente accorgersi subito dopo della sua sciocchezza. Qualcosa di buono era successo! Qualcosa di ottimo, sebbene pauroso e doloroso.
Aveva raggiunto con molta circospezione una serie di vasi di vetro sbrecciati. Annusava quasi con disperazione, cercando di distinguere in quella cacofonia di odori sgradevoli il minimo segno percettibile di qualcosa di commestibile.
All’improvviso, c’era stato un rumore: un debole schianto sordo seguito da una coda di tonfi ravvicinati, fradici e confusi. Probabilmente, uno scaffale marcito e vetusto aveva ceduto sotto il peso dei volumi accatastati su di esso e questi erano caduti, non di colpo ma scompaginandosi e sgranandosi uno dopo l’altro, generando un suono repellente.
Quel rumore gli aveva quasi fatto spiccare un salto di paura. In un gesto inconsulto, dettato dai nervi a fior di pelle, aveva urtato i vasi con cui stava trafficando, rovesciandoli e infrangendoli. Le sostanze contenute al loro interno si erano mescolate violentemente, alzando una zaffata di polvere pestilenziale che lo aveva travolto in pieno; prima che avesse potuto schermirsi, ne aveva già inalata una certa quantità. La gola gli si era serrata in una morsa dolorosa, che non gli permetteva né di tossire né di respirare, mentre un violento capogiro lo aveva costretto ad accasciarsi scompostamente, urtando di nuovo i vasi e sollevando altra polvere. Nel suo campo visivo, ogni cosa si deformava e si muoveva, assumendo proporzioni completamente sbagliate e impossibili. Per quanto si sforzasse, con grande agonia, di respirare, non ci riusciva. Era stato colto allora dalla consapevolezza di stare per morire.
Invece, in quel momento aveva udito la voce. Era come un mugolio lontano che gradualmente, senza che nessuno vi prestasse attenzione, si era avvicinato fino a non poter più essere ignorato. All’interno di questo urlo senza un inizio e senza una fine, ottuso e mugghiante, c’erano delle variazioni continue, delle stratificazioni di suoni diversi, contemporanei e sfalsati, come se fossero parole, impronunciabili, atone, che voce mortale non avrebbe mai potuto articolare per l’impossibilità fisica di riprodurle. Erano suoni di un altro mondo, vibranti di una profondità insondabile dagli oscuri e inconfessabili segreti. Era come una testimonianza inaspettata emersa dagli abissi più profondi di una realtà da incubo, di cui nessuno aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza. D’improvviso, la letale mescolanza di sostanze alchemiche che aveva inalato aveva cessato di farlo soffocare. Non sentiva più alcuna sofferenza, solo le ineffabili permutazioni della voce della sua guida, del suo nuovo padrone.
La voce non l’avrebbe mai più lasciato solo.
Erano frasi in una lingua inesistente, eppure lui gradualmente imparò a comprenderle. Gli parlavano di lui stesso, gli svelavano la sua miseria, gli aprivano gli occhi sulla realtà del mondo. Grazie alla voce, aveva capito che la sua coscienza aveva dormito un lungo sonno, costellato di incubi, ma ora essa era giunta per risvegliarla. Con l’aiuto della voce, avrebbe avuto tutta la fortuna che gli era sempre mancata, perché la voce parlava di una mutazione totale, radicale, incontrovertibile della realtà stessa. E lui sarebbe stato il tramite, il cuore, la sede dell’impulso generatore di questa trasformazione cosmica.

Da quel giorno, un cambiamento si era susseguito all’altro, in uno stordente crescendo di novità, di mutazioni, di vittoriose conquiste nei domini della consapevolezza, dell’autocoscienza e della sapienza. Se prima era stato l’ultimo, ora stava scalando tutte le posizioni, diretto da un destino superiore verso il vertice della piramide esistenziale.
C’erano sempre stati altri, che come lui vivevano di espedienti nelle fogne. Anche questi erano degli ultimi. Non così tanto ultimi, come lo era stato lui, ma pur sempre dei reietti. Avrebbe potuto rivalersi subito su di loro, che lo avevano umiliato tante volte in quell’assurda gara di cattiveria tra pezzenti per accaparrarsi i rifiuti, ma non lo aveva fatto. Erano divenuti i suoi primi seguaci, riconoscendo in lui il simbolo della rivoluzione dalle spietate leggi della natura, il capo seguendo il quale avrebbero dato la scalata al mondo rigoglioso e pulito che tanto odiavano e contemporaneamente bramavano. Erano diventati la sua legione puzzolente, claudicante, malata, debole, ma incrollabile, inarrestabile e fedele fino alla morte. Per questo, pur potendolo fare, non aveva abbandonato le fogne. Erano la capitale del suo regno. Non aveva scelto di viverci, ci era stato cacciato a forza dai cani e dai bastoni. Ora avrebbe trasformato in una latrina fermentante di morbi tutto il mondo, per ritorsione. Che morissero nel modo in cui lui invece era sopravvissuto!
Anche ora, mentre pensava a tutto questo, strisciava lungo i cunicoli grondanti putridume che chiamava casa. Sciami di ratti deformi e insetti che non avevano mai conosciuto la luce del sole lo accompagnavano, muovendosi ad ondate, ad ogni suo passo. Procedeva incurante dei vapori insani, carichi di germi di ogni malattia. Su di lui non avevano più alcun effetto. Si muoveva, grande e potente, al di sotto di coloro che stavano ormai da tempo tremando nel terrore della sua indefinita presenza, senza conoscere nulla del loro dominatore, ignorando ancora la direzione che egli avrebbe impresso all’evoluzione e che avrebbe cancellato per sempre la loro ridicola, ordinata, linda civiltà. Continuavano a riversare le loro deiezioni nella fogna che essi stessi avevano costruito, perché non sopportavano la vista della sporcizia che producevano, e non sapevano che quel luogo di peccati rimossi e di scarti abbandonati avrebbe vomitato fuori la loro nemesi.
Alcuni dei più scaltri avevano capito, tuttavia, e avevano preso l’unica decisione sensata. Una volta lo disprezzavano, ed ora lo temevano, si prostravano di fronte a lui, strisciavano nella melma per venire ad abbeverarsi alle sue parole, eseguivano i suoi ordini tremando al pensiero della punizione. Si sarebbero lasciati schiacciare senza opporre resistenza sul fondale lurido di escrementi del collettore, frantumare le ossa e ridurre in poltiglia senza opporre un lamento.
Comprimendo il suo corpo rigonfio per oltrepassare lo stretto passaggio, entrò nella sala con uno sciaguattare osceno. Erano tutti lì, in febbrile attesa della sua venuta. Avvolti da mantelli lerci, con i volti deformi e sfigurati che esprimevano terrore e rispetto, con i corpi gobbi e tremanti. Li aveva convinti a barattare la loro salute e la loro umanità in cambio del potere e della promessa di un posto al suo fianco nel nuovo mondo che stava per nascere. Lo odiavano a morte, ma non potevano farci nulla: erano totalmente suoi.
Si concesse un istante per bearsi del loro orrore malcelato, mentre li fissava uno ad uno. Poteva leggerli come libri spalancati. I visi degli uomini, deturpati dalle malattie fino ad avere sembianze cadaveriche, senza più naso e labbra, fremevano di un’emozione a stento repressa. In quel momento stavano senza dubbio interrogandosi senza pace, come sempre. Perché, si stavano chiedendo, perché non loro? Perché la rivelazione non era stata fatta a loro, che si credevano superiori, che mai avrebbero pensato che uno scarto tra gli scarti, un essere così infimo, li avrebbe sopravanzati?
Ironia della sorte! Poveri sciocchi, presto sarebbero stati solo terreno di coltura per i vermi, e la loro esulcerante umiliazione, dettata dall’atavica arroganza della loro specie, sarebbe morta con loro. I loro occhi febbricitanti, non facevano che rimandare l’immagine irridente di colui che aveva rovesciato ogni rapporto tra le specie cosiddette dominanti.
Lì, di fronte a loro, c’era la risposta, ma continuavano a non accettarla: in quel corpo enorme, rigonfio, pulsante e peloso; in quel muso allungato, che terminava in un naso umido e fremente, contornato da lunghe vibrisse; in quegli occhietti neri che si erano moltiplicati dal numero iniziale di due, aprendosi a grappoli e a file lungo tutto il cranio e il dorso; in quelle zampe artigliate, che una volta frugavano, come milioni di altre, nei rifiuti in cerca di cibo ed ora si muovevano con sapienza e intelligenza manipolando reagenti e composti biochimici che mai la supposta razza superiore era stata in grado di scoprire.
L’enorme creatura che un tempo era stata un ratto, fletté le sue nuove otto zampe di ragno, simili a tronchi alieni coperti di rostri, e unì la sua voce inumana a quella che risuonava nella sua coscienza, fin dal momento che questa era sbocciata come un fiore immondo.

Aghsh…akfaghjilesh…ggharhaddd-aghsh…lkhjias-aghsh…Ba' al zebub! Sì! Ba' al zebub, Signore delle Mosche, Grande Parassita, insondabile fautore della suprema evoluzione! Ieri ultimi, oggi primi; le parti si rovesciano, tutto cambia! Si dice che tutto sia scritto, ma Ba' al zebub mi ha spiegato come entrare nel testo cosmico e alterare le frasi, trasformando il racconto del creato in un altro totalmente diverso! Perché Ba' al zebub è Colui che dominerà il Nuovo Mondo e io, un ratto di fogna, sono il suo Emissario!”

Le desolate lande che mirai

Le desolate lande che mirai
dalla cima guardando d'un'altura
paura evitar non mi fece mai
e cento volte scelsi l'avventura.

Di morte colme e di dolor peggiori
son queste terre d'ogni gioia vuote,
ma arcane conoscenze allori ed ori,
se in alto volgeranno allor le ruote

del Fato per coloro che là vanno,
daranno come messi il campo dona
quando si dice: buono è stato l'anno.

Se pure un solo errore non perdona
la Morte, color che a sfidarla andranno
avran col rischio più grande corona.

mercoledì 26 maggio 2010

Novità sul Ribaldone

Ho deciso di organizzare un po' meglio questo blog creando delle pagine tematiche. Mettendomi nei panni di un ipotetico (e inesistente) lettore che giungesse al mio blog senza avere contatti diretti e frequenti con me, ho pensato che potrebbe trovare più comodo consultare direttamente un indice della categoria di eruttazione mentale che gli interessa, anziché ricercare per etichetta.
Finora esistono due pagine:
  • pagina per gli ahi! ku
  • pagina per il manifesto del Maximal Shock
A breve, dovrebbero comparire anche:
  • una pagina per gli animalimerick
  • una pagina per le altre poesie
  • forse, una pagina per i racconti
Colgo l'occasione anche per anticipare alcuni fumosi progetti, nella speranza che il detto scripta manent faccia il suo dovere e mi sproni a realizzarli, dato che ormai ne ho scritto: sto ruminando nientemeno che una parodia shakespeariana e un romanzo fantasy.
Ecco, l'ho scritto. Ho fatto malissimo.

Ferragosto

Scoppi di fiori,
profane invocazioni
al cielo estivo.

Un altro compleanno

Chiacchiere in festa
d'estate una serata,
ventottesima.

Insonnia

Quando la notte
stende un velo di seta,
sono poeta?

Dedica al Maestro

Su un ramo secco
c'è un corvo stecchito:
mente di Guido

mercoledì 5 maggio 2010

Ricordo di Lucca

Mano d'artista
percorre il bianco vuoto:
segni di sogni.

I sodomitili

Roma, si sa, non fu fatta in un giorno,
ma in tanto Sodoma tolser di torno.
Sul fondo del Mar Morto
sol cercavan conforto,
poi la vicenda divenne un po' porno.